Dopo un lungo immobilismo e mancati investimenti, negli ultimi due anni l’Agenda Digitale italiana ha cambiato passo, mostrando alcuni risultati significativi.
Oggi 1.200 Comuni hanno già migrato i dati anagrafici all’ANPR, che coinvolge 14 milioni di italiani. Sono state rilasciate 6 milioni di Carte d’Identità Elettroniche a circa il 10% della popolazione italiana. SPID ha erogato 3 milioni di identità digitali per 4.200 servizi online di 4.000 PA (ma il livello di effettivo utilizzo è ancora limitato). 14.000 enti hanno attivato pagoPA, anche se restiamo lontani dall’obiettivo di 50 milioni di pagamenti entro fine 2018. Sono già oltre 100 milioni le fatture elettroniche verso la PA e ora si guarda al prossimo obbligo di fatturazione elettronica tra privati, da gennaio 2019. Il Fascicolo Sanitario Elettronico è attivo in 17 Regioni italiane e completamente operativo in 12 per una copertura del 25% degli assistiti e il 40% dei referti. Sono stati pubblicati oltre 22.000 Open data. È stata definita la razionalizzazione dei data center pubblici, anche se la migrazione verso cloud e pochi Poli Strategici Nazionali è solo all’inizio.
Se però si misurano gli effetti delle azioni messe in campo sulle classifiche internazionali, si rischia di concludere che siano state infruttuose. Secondo l’ultimo Digital Economy and Society Index (DESI), l’indicatore della Commissione Europea che misura l’attuazione dell’Agenda Digitale, l’Italia resta al quartultimo posto in Europa, con gap evidenti soprattutto nelle competenze digitali e nell’uso di internet. Anche i Digital Maturity Indexes, il sistema di indicatori sviluppato dall’Osservatorio Agenda Digitale per superare alcuni limiti del DESI, ci colloca in fondo alla classifica: l’Italia è 22esima su 28 Paesi europei per sforzi nell’attuazione dell’Agenda Digitale e 25esima per risultati raggiunti.
La principale ragione per la quale gran parte degli sforzi di AgID e del Team Digitale non sono riflessi in questi indicatori è perché gli attori istituzionali si sono sostanzialmente occupati di progetti infrastrutturali che devono ancora dispiegare i loro effetti e che spesso richiedono ulteriori investimenti per renderne tangibile e irreversibile l’impatto. La strada intrapresa dall’Italia sembra essere quella giusta, ma ora è necessario garantire continuità alle iniziative di digitalizzazione per realizzare cambiamenti strutturali. Nel 2018 si è insediato il nuovo Direttore dell’AgID, Teresa Alvaro, è finito il mandato di Diego Piacentini come Commissario straordinario per l’attuazione dell’Agenda Digitale – gli è succeduto Luca Attias – e si è insediato un nuovo Governo. A fronte di queste discontinuità al vertice, è importante dare continuità ai progetti intrapresi per evitare che sia l’anno zero dell’innovazione digitale.
In particolare, l’Italia deve migliorare la capacità di spesa delle risorse economiche a sua disposizione: l’Europa ha messo a disposizione 1,65 miliardi di euro l’anno per l’attuazione dell’Agenda Digitale italiana (complessivamente 11,5 miliardi di euro dal 2014 al 2020), ma a fine del 2017 abbiamo speso meno del 3% dei fondi strutturali a disposizione e vincolato alla spesa solo il 10%. È inoltre necessario accelerare l’attuazione normativa: solo 45 dei 93 provvedimenti attuativi previsti dalla normativa sull’attuazione dell’Agenda Digitale sono stati recepiti (7 entro le scadenze previste). 13 sono stati abrogati ma se ne potrebbero abrogare altri 5 il cui contenuto è ormai obsoleto. Il Piano Triennale, la strategia di digitalizzazione della PA italiana, mostra invece un buon livello di attuazione: a un anno dal rilascio ha raggiunto 45 dei 108 risultati prefissi. Ecco quanto emerge dalla ricerca dell’Osservatorio Agenda Digitale della School of Management del Politecnico di Milano (www.osservatori.net), presentata questa mattina al convegno “Italia digitale, come evitare l’anno zero” in cui il Direttore Generale di AgID ha illustrato in anteprima alcune delle novità del nuovo Piano Triennale che verrà pubblicato nelle prossime settimane.
“Il posizionamento dell’Italia in Europa non mi stupisce: anni di miopia e mancati investimenti in innovazione digitale avevano creato una situazione così critica che non si poteva ribaltare in poco tempo, ma oggi l’Italia ha decisamente cambiato passo. Ora è necessario evitare a tutti i costi che questo sia l’ennesimo ‘anno zero’ del digitale, in cui – nonostante grandi investimenti – si raccolgono pochi risultati – afferma Alessandro Perego, Responsabile scientifico dell’Osservatorio Agenda Digitale -. Siamo contenti che il Direttore dell’AgID e il Commissario del Team Digitale abbiano dichiarato di voler interpretare il loro ruolo in forte continuità con i loro predecessori, facendo collaborare i rispettivi gruppi di lavoro. Adesso è importante innanzitutto non ricominciare da capo: non vanno cambiati i modelli architetturali di riferimento costruiti con fatica negli ultimi anni. Bisogna accelerare l’attuazione dei progetti avviati ed è necessario introdurre una chiara governance dell’innovazione digitale, oltre a dare vita a un programma per lo sviluppo di competenze digitali che consenta di recuperare le gravi lacune dell’Italia su questo fronte”.
Il DESI – Secondo gli ultimi dati del DESI della Commissione Europea, riferiti a metà 2017, l’Italia è ferma alla quart’ultima posizione in Europa per attuazione della propria agenda digitale, lontana da Paesi simili come Regno Unito, Spagna, Germania e Francia. Arretriamo in connettività (26esimo posto), capitale umano (25esimo) e digitalizzazione delle imprese (20esimi), mentre conserviamo il penultimo posto nell’area dell’uso di internet e il 19esimo in quella dei servizi pubblici digitali.
L’Osservatorio ha creato un indice DESI regionale per fornire un quadro più approfondito del nostro Paese. L’area più digitale è la Provincia Autonoma di Trento, con un punteggio di 47,3 su 100, seguita da Lombardia, Emilia-Romagna, Toscana, Veneto, Friuli-Venezia Giulia, Provincia di Bolzano, Lazio, Liguria, Marche e Piemonte (tutte sopra la media italiana di 42,5). Sotto la media nazionale, invece, si collocano Umbria, Valle d’Aosta, Sardegna, Abruzzo, Campania, Basilicata, Molise, Puglia, Sicilia e, ultima in classifica, la Regione Calabria, con un punteggio di 36,5.
“Il digitale deve essere uno strumento di integrazione del Paese e non di divisione. Occorre lavorare per superare la frammentazione esistente e applicare le migliori pratiche in tutto il Paese. Dall’analisi dei DESI regionali emerge la presenza di territori fortemente arretrati il cui gap digitale non si accenna a colmare – evidenzia Mariano Corso, Responsabile Scientifico dell’Osservatorio Agenda Digitale -. Tra le 11 Regioni con un punteggio superiore alla media italiana, 8 sono del Nord e 3 del Centro. Le ultime Regioni in classifica sono tutte del Sud. Anche la migliore Regione italiana, tuttavia, si posiziona sempre sotto la media europea su quasi tutte le aree del DESI, in particolare per connettività, competenze digitali e uso di internet”.
Digital Maturity Indexes – Il DESI ha alcuni limiti: gli indicatori usati nell’indice non sono completi, i relativi dati non sono sempre aggiornati e, non distinguendo tra fattori abilitanti e risultati ottenuti, forniscono poche indicazioni a chi vuole migliorare la propria situazione. “Per questa ragione” – sottolinea Luca Gastaldi, Direttore dell’Osservatorio Agenda Digitale – abbiamo costruito i Digital Maturity Indexes (DMI), un insieme di indicatori più completo e preciso del DESI in cui l’Italia si colloca al 22esimo posto su 28 Paesi europei per sforzi fatti nell’attuazione della propria Agenda Digitale (con un punteggio di 52,5 su 100 contro una media europea pari a 61,6) e al 25esimo posto per risultati raggiunti (36,4 contro una media europea pari a 46,9)”.
Analizzando gli sforzi fatti, l’Italia è allineata al resto d’Europa nelle infrastrutture: la banda larga fissa di base ha raggiunto il 99% delle abitazioni, mentre rimaniamo indietro sulla copertura a oltre 100 Mbps, il 3G avanzato copre il 99,4% del nostro Paese, il 4G l’88,7%. Siamo allineati al resto d’Europa anche per la digitalizzazione della PA. Migliorano in particolare i servizi pubblici digitali offerti, con un forte avanzamento sul fronte degli open data. Infine, siamo simili agli altri Paesi europei anche per gli sforzi fatti nel rendere le nostre imprese più digitali, grazie soprattutto ai piani Industria 4.0 e Impresa 4.0. Risultano invece insufficienti le azioni per rendere più digitali i cittadini italiani: siamo terzultimi in Europa per capacità di gestire file e informazioni digitali (solo il 58% degli italiani lo sa fare contro il 74% degli europei) e fatichiamo a produrre contenuti digitali (solo il 48% degli italiani sa creare o modificare contenuti digitali contro il 59% degli europei).
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Lo switch-off di servizi pubblici – Nel 2018, solo il 12% dei 163 Comuni intervistati dall’Osservatorio ha effettuato lo switch-off di almeno un servizio, cioè ha smesso di erogarlo in modalità tradizionale ripensandone la gestione esclusivamente attraverso canali digitali. Un ulteriore 21% ha in cantiere progetti di switch-off per il 2019. Oltre il 65% dei Comuni, invece, non ha ancora fatto e non intende attivare iniziative di switch-off a breve. “Si tratta senz’altro di un dato qualitativo ma comunque significativo di un cambio di approccio da parte dei Comuni italiani che stanno cominciando a superare la logica dei servizi online quale mero adempimento – afferma Giuliano Noci, Responsabile scientifico dell’Osservatorio Agenda Digitale – d’altra parte, i grandi benefici economici conseguibili dalla digitalizzazione dimostrano quali possano essere i ritorni tangibili per gli Enti.” L’Osservatorio ha infatti stimato i risparmi relativi alla digitalizzazione di tre servizi di pagamento grazie all’adozione di pagoPA. Si tratta di 89 milioni l’anno per il servizio mensa, 157 milioni per la TARI e 82 milioni per le multe. Complessivamente 328 milioni di euro l’anno solo su questi tre servizi di pagamento, anche se ad oggi solo il 23% di tali risparmi è stato conseguito.
Le principali motivazioni identificate dai Comuni per relizzare lo switch-off sono la volontà di migliorare l’erogazione dei servizi e l’interesse politico, mentre le difficoltà maggiori fanno riferimeno alla scarsità di risorse economiche e al trovare meccanismi e modalità per superare la mancanza di competenze digitali da parte dei cittadini. “Le iniziative di switch-off sono faticose. L’Osservatorio ha pertanto deciso di lavorare a un modello sperimentale descrittivo che definisce gli elementi di contesto e le leve di cambiamento attivabili in questo tipo di iniziative – dice Michele Benedetti, Direttore dell’Osservatorio Agenda Digitale -, un vademecum che suggerisce i passi da compiere per l’avvio e lo sviluppo di progetti di cambiamento che conducano all’erogazione di servizi pubblici attraverso il solo canale digitale: dodici ‘regole’ che l’ente dovrebbe osservare per gestire con successo le fasi prima, durante e dopo i progetti di switch-off”.
Domanda e offerta digitale della PA – Il mercato digitale della PA italiana vale 5,5 miliardi di euro e rappresenta solo l’8% del mercato digitale italiano. La spesa pro-capite in tecnologie digitali è pari a 85 euro a cittadino, quasi quattro volte meno del Regno Unito (323 euro a cittadino), due volte e mezzo meno della Germania (207) e due volte meno della Francia (186). Meno di 15.000 degli oltre 100.000 fornitori italiani di soluzioni digitali lavorano con la PA.
Oltre ad essere di modeste dimensioni, sia economiche che per numero di fornitori attivi, il mercato delle soluzioni digitali offerte alla PA italiana è concentrato nelle mani di pochi attori:13 fornitori coprono il fabbisogno informatico del 75% dei Comuni. I primi tre per numero di software offerti arrivano al 52%. I prezzi sono tendenzialmente molto bassi e si registra una forte variabilità.
Ma che tipo di acquisti digitali compiono le PA? Nel 2017 oltre la metà del valore degli acquisti digitali era relativo a servizi ICT e software on premise. I fornitori di queste soluzioni sono quelli con cui si registrano le maggiori criticità anche se il 75% delle PA non ne misura mai le performance e le procedure tramite cui collaborare meglio con i privati sono usate ancora pochissimo. Nonostante l’assenza di una valutazione strutturata, la PA si dichiara mediamente poco soddisfatta: il 53% degli enti è insoddisfatta della proattività dei fornitori digitali nel suggerire nuove soluzioni e il 54% degli enti reputa ancora insufficiente la capacità delle imprese di collaborare nell’elaborare e attuare idee innovative.
“L’offerta e la domanda di innovazione digitale in ambito pubblico sembrano affette dal cosiddetto ‘dilemma del prigioniero’ – afferma Alfonso Fuggetta, Responsabile Scientifico dell’Osservatorio Agenda Digitale –, sono ancora troppo pochi gli incentivi a collaborare tra pubblico e privato ed è difficile trovare una situazione di equilibrio tra le contro-parti. È necessario rivedere il Codice degli appalti; i privati devono basare i loro modelli di business per rendere le loro offerte più interoperabili; le PA devono invece sviluppare competenze di procurement. Altrimenti continueremo a registrare i problemi di sempre”.